Greta Thunberg: "Il virus non mi fermerà"

di Adam Vaughan
Qualcuno dalla penna un po’ avvelenata l’ha messa così: il Covid-19 ha ucciso Greta Thunberg. Nel senso che il coronavirus ha tolto molto del vento che soffiava nelle vele dell’ecoattivista 17enne, facendo un po’ passare in secondo piano l’emergenza ambientale rispetto a quella della pandemia. La verità, invece, è che Greta non solo sta benissimo, ma ha intuito prima di altri l’occasione che abbiamo davanti: approfittare del mondo post-Covid in cui dovremo rivedere per forza i nostri stili di vita e far andare avanti di pari passo la battaglia contro il surriscaldamento globale. La missione non è semplice, nemmeno per questa ragazza che ha iniziato da sola i suoi “scioperi per l’ambiente” davanti al Parlamento svedese nel 2018, quando aveva solo 15 anni. Da allora è diventata una delle persone più popolari al mondo. Ha parlato alle Nazioni Unite ed è stata candidata già due volte al premio Nobel per la Pace.
Il coronavirus ha confinato il movimento #FridaysForFuture online, ma non la determinazione di Thunberg: «Proprio come il cambiamento climatico, anche la pandemia del coronavirus colpisce i diritti dei bambini. Tutti i piccoli saranno danneggiati, adesso e nel lungo termine, e quelli più vulnerabili lo saranno in maniera più grave». Con queste parole, Greta ha lanciato la campagna “Let’s Move Humanity for Children in the Fight Against Coronavirus” (L’umanità si mobiliti per i bambini nell’emergenza Coronavirus) a sostegno dell’Unicef, donando i 100 mila dollari dell’Human Act Award, il premio che le era stato assegnato lo scorso 22 aprile.
Greta, hai deciso quasi immediatamente che avresti portato sul web i Fridays for Future. Come mai?
«In realtà, non sono stata io a farlo. Abbiamo avuto alcuni incontri con le persone che fanno parte del movimento in tutto il mondo e abbiamo deciso insieme. Anche se noi siamo giovani e non apparteniamo alla categoria più colpita da questo virus, siamo al fianco di chi rischia di più».
Da più parti si stanno facendo paragoni fra l’emergenza climatica e l’epidemia del coronavirus, mettendo a confronto la rapidità e la portata degli interventi con i quali i governi hanno reagito. Che cosa pensi possa insegnarci questa crisi a proposito delle azioni necessarie per combattere il surriscaldamento globale?
«Prima di tutto non credo che dovremmo fare confronti: Covid e ambiente vanno trattate come crisi separate, anche se possono essere gestite insieme. Una non esclude l’altra; anzi, la crisi determinata dal coronavirus dimostra proprio che le nostre società non sono sostenibili. Il fatto che un virus possa distruggere l’economia globale e fermare intere comunità è la prova che le nostre società non sono poi così forti. Però c’è anche un aspetto positivo: quando arriva un’emergenza siamo capaci di agire e cambiare il nostro comportamento in maniera molto rapida. Fino a quando conserveremo buon senso e solidarietà potremo superare qualsiasi ostacolo».
Ti preoccupa l’idea che questa pandemia possa diventare una grande distrazione per i politici che, sopraffatti dalle circostanze, potrebbero rimandare azioni come il piano d’investimenti europeo per l’ambiente e altre misure?
«È del tutto possibile che gli interventi a favore del clima vengano rimandati. Anzi, sicuramente verranno rimandati. Stiamo affrontando un’emergenza sanitaria così grande che quasi non sembra possibile potersi occupare anche della crisi climatica. Questo lo capisco, ma noi non possiamo dimenticarcene. Dobbiamo occuparci di coronavirus e di ambiente perché la crisi climatica non è scomparsa».
Dall’inizio della tua protesta, hai sempre fatto poco uso di slogan e molto di verità scientifiche. Come mai?
«Perché quella ambientale non è una crisi politica, ma un’emergenza scientifica. Non è qualcosa su cui si possano avere opinioni diverse: è davvero bianco o nero. Se continuiamo a escludere gli esperti dalla conversazione, non riusciremo a risolvere il problema».
Pensi che ripetere, più e più volte, questi dati scientifici alle persone basterà a spingerle ad agire? Che cos’altro potrebbe servire?
«Citando solo le ricerche scientifiche non riusciamo a spingere le persone ad agire. La maggior parte di noi, quando vede un documento scientifico, non sa leggerlo. Non dice certo: “Oddio, questa è una crisi senza precedenti, dobbiamo darci da fare subito”. Le persone sono animali sociali e, se gli altri non si comportano come se ci fosse un’emergenza, allora nessuno cambierà il proprio modo di pensare e di agire».
Durante alcuni dei tuoi discorsi hai detto che i governi e le imprese non hanno fatto abbastanza, per questo hanno fallito la loro missione. Ci sono esempi di azioni positive che vale la pena citare?
«Naturalmente sì. Molte cose sono piccole ma importanti, come la recente cancellazione dell’ampliamento dell’aeroporto di Bristol, in Gran Bretagna. Dobbiamo, però, anche tener presente che, se guardiamo al quadro generale, ci sono molte cose negative che stanno accadendo e, per questo, va bene riconoscere le “vittorie”, ma senza permettere che queste ci distolgano dai problemi. Ciò che davvero manca in questo momento è il tempo, il fattore tempo non ci aiuta. Perciò dobbiamo usare le risorse che abbiamo disponibili adesso».
Hai ricevuto tantissime reazioni negative e critiche, a volte persino da parte di capi di Stato. Come reagisci?
«Il momento in cui ricevi critiche da parte di qualche leader puoi considerarlo davvero una pietra miliare della tua carriera. Va considerata una vittoria perché è la dimostrazione che stai avendo un impatto, che loro sono davvero spaventati da te, perché vogliono mantenere il loro status e tu li stai mettendo in difficoltà. Allo stesso tempo, mi fa ridere quando gli adulti si sentono così minacciati da noi “ragazzini” da sentire l’esigenza di prenderci in giro per zittirci».
Ti scoraggia essere trattata come una figura “unica” nell’ambito dell’attivismo climatico? Al summit sul clima di Madrid dello scorso dicembre, c’erano tanti attivisti sul palco, provenienti da tutto il mondo, ma i giornalisti volevano fare domande solo a te.
«Sì, questo succede continuamente e mi scoraggia. Invece di fare pressioni sui capi di Stato e sugli amministratori delegati, i giornalisti scrivono di me. Comprendo che lo fanno perché, attraverso di me, possono comunque parlare della crisi climatica, ma non riesco a giustificare il fatto che ignorino completamente non solo gli altri, ma anche i fatti scientifici in quanto tali».
Come ti sostengono i tuoi genitori?
«All’inizio non erano molto favorevoli, soprattutto quando la cosa ha acquisito una dimensione globale che ha avuto un impatto sulla nostra vita. Erano anche molto preoccupati dal fatto che le persone potessero contestarmi e che potessero esserci rischi per la mia sicurezza. Mi hanno chiesto, in un certo senso, di fare un passo indietro, ma poi si sono resi conto che grazie all’attivismo io ero più motivata e più felice. Si sono trovati in una posizione molto difficile e non credo sapessero precisamente come affrontarla».
Tu hai sicuramente avuto una grande influenza su di loro. Ma mi chiedo, invece, come loro abbiano influenzato te.
«Hanno sempre provato a crescermi spingendomi a pensare agli altri. Non mi hanno mai detto, per esempio, di essere fieri di me per quello che ho realizzato. Mi dicono, piuttosto: “Siamo felici, se tu sei felice”. Per me è un modo di fare molto positivo e sano».
Quando non sei impegnata con il tuo attivismo, quali cose da teenager fai?
«È difficile rispondere perché tutto cambia continuamente. Quando sono a casa ho deciso di occupare il tempo facendo una serie di “liste delle cose da fare”, ma ho anche lavorato a maglia, scritto il mio diario e giocato con i miei cani. Il mio attivismo ora occupa quasi completamente tutto il mio tempo».
Hai detto di essere stata colpita dal coronavirus, com’è stata la tua esperienza?
«Inizialmente non ne volevo parlare. Poi ho pensato di comunicare la mia intenzione di mettermi in quarantena volontaria perché avevo viaggiato in treno e non volevo mettere nessuno a rischio. Dopo qualche giorno ho cominciato a sentire qualche sintomo: io mi sono sentita insolitamente stanca e avevo un po’ di tosse. Mio padre ha avuto sintomi più forti. Ma molte persone ancora oggi sono asintomatiche, tuttavia possono sempre essere contagiose. Per questo è fondamentale praticare sempre il distanziamento sociale, a prescindere da come ci si senta».
Hai idea di che lavoro vorresti fare dopo gli studi?
«Penso di aver sognato e preso in considerazione quasi ogni possibile carriera al mondo. Per ora so che voglio essere in un posto dove io possa fare la differenza, dove io possa provare a rendere il mondo migliore. Sono troppe le cose che vorrei fare e tutte sembrano belle».
(Ha collaborato Angela Vitaliano)
© 2020 New Scientist Ltd.
Articolo pubblicato sul numero 25 di GRAZIA (4 giugno 2020)
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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"
Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.
Che rapporto ha con il passare del tempo?
«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».
Davvero?
«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».
Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.
«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».
Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?
«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».
Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?
«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».
Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…
«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare».
Come mai?
«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».
Che cosa le disse al ritorno?
«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».
Ha fatto lo stesso con i suoi figli?
«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».
Che rapporto ha con la psichiatria?
«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».
Com’è andata?
«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».
E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?
«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il corpo».
Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?
«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».
Che cosa di lei non hanno mai capito finora?
«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».
Com’è la sua giornata ideale?
«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».
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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli
Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».
A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.
La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.
Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».
Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela
RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)
1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».
2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni?
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».
Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com
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«Quanto ti dicono: "se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?"»: l'editoriale di Silvia Grilli
In una scena di C'è ancora domani, la protagonista Delia, costretta dal marito brutale a un rapporto sessuale, toglie un granellino di polvere dal comodino, completamente estranea a quanto le sta accadendo. La dissociazione è un'autodifesa comune tra le vittime di stupro.
Una ragazza che intervistai mi raccontò che, durante la violenza, cercava di ricordare le parole delle sue canzoni preferite. Era come congelata nel panico: non urlò, non si mosse, terrorizzata di subire ulteriori aggressioni.
Jessica Mann, una delle testimoni al processo contro il produttore stupratore Harvey Weinstein, ha ricordato di essere rimasta immobile, mentre lui la violentava. Mann ha citato in tribunale uno studio scientifico sulle difese messe in atto da esseri umani e animali. Questi ultimi si fingono morti di fronte a un attacco, perché così i predatori sembrano perdere interesse. Ma, per ironia della sorte, è proprio l’immobilità della vittima a mettere in dubbio la credibilità delle donne nei dibattimenti per stupro. «Non si è mossa, quindi vuol dire che ci stava».
Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno voluto una legge per cambiare la vecchia norma, secondo la quale è reato solo se si viene costrette ad atti sessuali con modi violenti o minacce. Le due leader condividono l’idea che il consenso debba essere dichiarato all’inizio e durante il rapporto.
L’atto sessuale deve avvenire per libera scelta, non per ricatto, abuso di potere o quando la volontà è ridotta per effetto di alcol o sostanze. E non è consenso solo perché si era detto «sì» in passato o perché si è sposati. Il silenzio o l’inerzia non sono acquiescenza, ma una conseguenza della violenza stessa. E ci si può tirare indietro, anche dopo aver, inizialmente, condiviso l’approccio.
La legge, nata dal patto Meloni-Schlein, è stata approvata all’unanimità dalla Camera dei deputati. Ma al Senato, nella Giornata contro la violenza degli uomini sulle donne, è stata bloccata e rinviata. Il ministro Matteo Salvini sostiene che «Il consenso preliminare lascia spazio a vendette personali che intaserebbero i tribunali».
Cioè, la magistratura si ritroverebbe con orde di donne che mentono. Sinceramente, non ho mai visto in Italia tutta questa folla di femmine pronte ad accusare per incastrare qualcuno. Sinceramente, mi pare il contrario: le vittime non denunciano perché conoscono bene gli interrogatori e il calvario che dovrebbero sopportare se lo facessero. Sinceramente, mi sembra una bocciatura per paura di perdere i privilegi maschili.
In una scena del film After the Hunt - Dopo la caccia, Julia Roberts dice a una studentessa che accusa un professore di stupro: «Non denunciare, altrimenti diventerai radioattiva. Il nostro sistema è dominato dai maschi. Ne avrai bisogno quando chiederai lavoro, e non lo otterrai perché saranno terrorizzati che un giorno tu possa accusare anche loro».
La notte del weekend scorso, a Milano, una ragazza ha denunciato per violenza un giovane con il quale si era allontanata. «Mi ha violentata», ha detto. «Era consenziente», ha ribattuto lui. Un consenso che fino a un certo punto c’è stato. Poi non più.
Lo stupro non è stupro solo se ti costringono con la pistola puntata alla tempia. Lo è anche quando io non voglio o non voglio più. Vale anche nel caso di rapporti sessuali tra conviventi: solo «sì» è «sì».
Anni fa, un senatore californiano si oppose a una legge contro lo stupro nel matrimonio, dicendo: «Se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?». Ecco, è proprio questo il concetto: né il corpo di tua moglie né quello della ragazza che si allontana con te, poi cambia idea, ti appartengono. Il loro corpo è loro, non tuo.
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GRAZIA presenta il numero straordinario "L'arte è donna" con direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo
Grazia, il magazine di Reworld Media diretto da Silvia Grilli, presenta il numero straordinario L'arte è donna. Il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste, collezioniste sono il filo conduttore di questa edizione speciale che ha come direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, fondatrice e presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, collezionista e mecenate riconosciuta a livello internazionale.
“Nella storia dell’arte le donne sono state cancellate o relegate al ruolo di mute muse ispiratrici, tagliate fuori dalle scuole, dalle botteghe degli artisti”, dichiara Silvia Grilli, direttrice di Grazia. “Con questo numero abbiamo voluto invece raccontare il talento femminile che c’è e c’è sempre stato, la creatività, pervicacia e abnegazione delle artiste donne, il loro sguardo diverso. Quando ho chiesto a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo di curare questo numero di Grazia, ho trovato un’interlocutrice appassionata, capace di raccontare nel modo migliore quel genio che non è appannaggio esclusivo degli uomini”.
“Questo numero speciale contiene storie, opere e luoghi che raccontano la mia vita con l’arte contemporanea, sul filo di una grande passione, un sogno, una visione che seguo e inseguo da oltre trent’anni”, spiega la direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. “Fra queste pagine, quel filo rosso è diventato un progetto a più voci che ha unito le forze per parlare dei cambiamenti del mondo delle donne: artiste, collezioniste, direttrici di musei, architette, scienziate. Nessun separatismo, le storie che abbiamo scelto, insieme con la direttrice Silvia Grilli e lo staff di Grazia, superano la tradizionale categoria di ‘femminile’, nell’editoria così come nell’arte, per portarci in un territorio di ricerca, uno spazio plurale, aperto sul presente, sensibile al diritto all’autodeterminazione, al di là di nascita e appartenenze”.
La copertina del numero è un’opera della pittrice e fotografa polacca Paulina Olowska intitolata Weeds (2017 - Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) che attraverso un nudo femminile - genere che nella storia dell’arte è stato per lo più appannaggio dello sguardo maschile - reclama la propria libertà di espressione.
Per raccontare il suo percorso, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo si è affidata alle domande attente del giornalista Dario Maltese e insieme hanno parlato di arte, emozioni e futuro. Si prosegue poi con Hans-Ulrich Obrist, curatore d’arte e direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, che intervista per Grazia l’architetta messicana Frida Escobedo, che realizza progetti nati dal suo bisogno di comunicare.
E il mondo scoprì le artiste è invece un’inchiesta approfondita sui grandi talenti dimenticati dalla storia. Pittrici e scultrici hanno infatti dovuto lottare e affrontare una moltitudine di ostacoli che non hanno diminuito il loro valore, ma spesso ne hanno cancellato traccia. Storiche dell’arte e curatrici stanno così adottando nuove strategie per restituire loro visibilità, mettendo in atto una vera e propria rivoluzione creativa.
Anche la moda è in linea con il tema portante del giornale: i bijoux americani degli Anni 30 collezionati da Patrizia Sandretto re Rebaudengo saranno abbinati a look liberi e anticonformisti e avranno come sfondo le opere della pittrice Pia Krajewski.
Sulle pagine della rivista ci sono poi due artisti che vanno oltre le definizioni di genere, lasciando spazio alle loro visioni: si parla di arte e natura con Jota Mombaça e di linguaggi e inclusione con Diana Anselmo.
Anche il rapporto tra arte e cinema è strettissimo: il grande schermo ha raccontato le vite e il tormento dei geni della pittura e Paola Malanga, direttrice artistica della Festa del Cinema di Roma, ha scelto per Grazia le pellicole da non perdere.
Nella sezione dedicata alla cultura, con la collaborazione della Fondazione Sandretto re Rebaudengo, vengono spiegati i percorsi artistici formativi e segnalate le 10 mostre dell’inverno da non perdere che guidano i lettori e le lettrici in un viaggio di linguaggi diversi.
Infine uno spazio è dedicato anche alle eccellenze mediche al servizio della salute delle donne della Fondazione IEO-MONZINO ETS, di cui Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è presidente. A parlare delle conquiste nelle terapie e nella prevenzione decisive per le pazienti sono la specialista di senologia Viviana Galimberti e la cardiologa Daniela Trabattoni.
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