Stefania Sandrelli: «Gli uomini sono come bambini»
C’è chi l’ha fatta soffrire, quello che non ha sposato per scaramanzia, il grande divo che non si accontentava del flirt senza impegno e l’amante perfetto per il sesso. Una mattina a casa di Stefania Sandrelli, che sta per festeggiare i 70 anni, diventa una lezione sui rapporti di coppia e i segreti per affrontare la vita dentro e fuori da un set
Per raccontare Stefania Sandrelli, che il 5 giugno compirà 70 anni (lei preferisce dire: «70 volte primavera») sono a un bivio. Parto dalla donna o dall’attrice? Mi basta entrare nel grande, luminoso appartamento romano in cui abita da più di 40 anni per scegliere la prima strada.
Piante ovunque, quadri, soprammobili, libri, tante fotografie incorniciate, i paraspigoli applicati a tutte le superfici potenzialmente pericolose (l’attrice mi spiega che l’ultima dei suoi cinque nipoti ha 2 anni) e un potente profumo di cucina che arriva fino in salotto mi rivelano più di mille parole la personalità accogliente ed esuberante della padrona di casa.
Ma anche se volessi raccontare Stefania Sandrelli attraverso i film che hanno scandito i suoi 55 anni di carriera, avrei solo l’imbarazzo della scelta. Potrei partire da Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata, i capolavori di Pietro Germi che fecero di lei un simbolo erotico quando aveva appena 15 anni. Per arrivare a L’ultimo bacio di Gabriele Muccino passando da C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, Novecento di Bernardo Bertolucci, La chiave di Tinto Brass, che rilanciò non senza “scandalo” la sua sensualità matura, Speriamo che sia femmina di Mario Monicelli. Il cinema dei maestri è sempre stato innamorato di quest’attrice istintiva e ironica, maliziosa e sincera, dotata di una leggerezza innata e intramontabile come il suo sex appeal. Stefania mi riceve solare, morbidamente avvolta in uno scialle. «Accetto serena il tempo che passa, i cambiamenti del corpo e il fatto che ormai mi diano da interpretare delle nonne», mi dice allegra. «Ma non mi lamento, ci mancherebbe, perché lavoro senza tregua». Giovanni Soldati, il regista che le sta accanto da 42 anni, prima come amico poi nel ruolo del “più grande amore” della sua vita, ci offre dell’acqua minerale e ci lascia sole a chiacchierare. Ma lo sentiamo battere sui tasti del computer nella stanza vicino, invisibile e rassicurante.
Stefania, lei sta per compiere 70 anni e 55 di carriera: è un traguardo che un po’ la spaventa?
«No, ci arrivo preparata. E le confesso un segreto: non me li sento. Sono grata alla vita per essere arrivata fino a questo punto. Ho due figli che adoro (l’attrice Amanda, nata nel 1964 della tumultuosa passione con il cantautore Gino Paoli, e Vito, oggi chirurgo, avuto nel 1973 dal matrimonio con il medico Nicky Pende, ndr). Riesco a godermi i miei cinque nipoti e continuo a lavorare. E senza nemmeno essermi rifatta».
Non ha mai avuto la tentazione di un ritocco?
«No, per carità. E non certo per un fatto estetico, sa? Ho evitato lifting e botox perché per girare film non ho bisogno di ringiovanirmi. Mi accettano per quello che sono: interpreto madri, zie, nonne e mi va benissimo. Non immagina quante attrici più giovani e più belle di me mi abbiano consigliato di rifarmi. Ma vogliamo scherzare? Se mi tirassi la faccia come tutte, perderei ogni espressione».
Comunque ha una pelle perfetta. Qual è il suo segreto?
«Il mio patrimonio genetico e delle buone creme. Ad essere sincera mi aiuta anche il fatto di non essere più magrissima».
Non segue una dieta?
«No, non me ne importa nulla. Ma ci tengo al mio aspetto ed evito gli stravizi. Per dirla chiaramente, non mi ingozzo di dolci».
Che effetto le fa rivedersi a 15 o 20 anni, quando la sua carica erotica conquistava il pubblico e perfino un grande scrittore come Alberto Moravia?
«Mi diverte, mi fa piacere. Soprattutto oggi che non devo dimostrare nulla. Se qualcuno mi dice che sono ancora bella, ringrazio e aggiungo che la bellezza passa e va. Nella vita ci vuole altro».
Che cosa? Com’è arrivata a diventare un mito del cinema e una donna felice nella sua pelle?
«Ho lavorato spesso con gli stessi registi, ho scelto il meglio e ho dato il meglio di me. Sono stata esuberante e ho usato il senso dell’umorismo in tutti i momenti della mia vita. E ho fatto un po’ la “gattamorta”, come tutte le donne».
Questa deve proprio spiegarmela.
«Be’, non ho mai ostentato la mia intelligenza, a volte ho fatto addirittura un passo indietro. Una donna troppo sveglia non viene mai vista di buon occhio, rende l’uomo insicuro. Ma non l’ho fatto per calcolo, mi è venuto naturale».
E come si è difesa, visto che ha cominciato a lavorare a 15 anni?
«Con l’istinto. Ho avuto la fortuna di fare le scelte giuste e non mi sono mai lasciata sopraffare dal lavoro. Ho sempre lasciato spazio alla mia vita».
Perché con Giovanni Soldati non si è mai sposata?
«Un po’ per mancanza di tempo, un po’ per scaramanzia. Di sicuro è l’uomo della mia vita, quello che mi ha accolta con più dedizione e generosità. Tra noi ci sono grande affetto e fiducia reciproca. Stiamo bene insieme senza tragedie e senza enfasi».
Il sesso a 70 anni è più consapevole e completo o meno necessario?
«È meno esuberante e non più tanto assiduo, quindi più adatto alla mia età. Posso anche rinunciare a far l’amore con Giovanni per un po’, ma sto bene lo stesso. Meno male che con Gino Paoli mi sono tolta tutti i grilli che potevo avere per la testa. La nostra è stata una grande passione».
Ed è rimasta in buoni rapporti con lui e con gli altri suoi ex: come ha fatto?
«Diciamo che ci sono riuscita con alti e bassi. Ma all’inizio con Gino, quando ci siamo lasciati, non è stato affatto facile. Ora, invece, andiamo molto d’accordo. Amo i suoi figli, sono amica della moglie. (Paola Penzo, ndr). La grande passione che mi ha legato a lui mezzo secolo fa si è trasformata nell’ammirazione sconfinata per il suo talento».
È vero che con Robert De Niro ha sfiorato una storia d’amore?
«Nel 1976, sul set di Novecento era talmente bello che ci avevo pensato. Ma non eravamo sulla stessa lunghezza d’onda, volevamo cose diverse».
Lei cosa cercava?
«Un flirt senza conseguenze. Mentre lui magari aspirava a qualcosa di più serio. Ma dagli attori non ho mai preteso delle storie troppo impegnative».
E perché, scusi? Il cinema trabocca di grandi storie d’amore fra star.
«Non mi hanno mai convinto. Di attore in famiglia ne basta uno, con il suo narcisismo e le sue fragilità. Non me la sono mai sentita di consegnarmi a un collega. Eppure penso di aver avuto una vita sentimentale fortunata, dopo tutto».
Ha più amato o è stata più amata dagli uomini?
«In amore ho sempre dato tutto e non sono stata accolta in misura adeguata. Alla fine di ogni storia mi sono sentita perduta, addirittura disperata. E quando la coppia smetteva di funzionare, sono stata sempre la prima ad accorgermene e a troncare. Ma non rinnego nulla, nemmeno il matrimonio fallito con Nicky Pende. Io attrice, lui medico: già sulla carta si capiva che non sarebbe durato, ma ero innamorata e ho voluto sposarlo ugualmente».
E che cosa la legava a Moravia?
«Una grande amicizia e il senso dell’umorismo. Quante volte si è seduto sul divano dove ora si trova lei. Insieme abbiamo chiacchierato tanto, ascoltato musica e riso come pazzi».
Come madre, che voto si darebbe?
«I voti non li ho mai sopportati, nemmeno a scuola. Che tipo di madre sono stata, possono dirlo solo i miei figli».
Mettiamola così: ha mai provato dei sensi di colpa, come tutte le mamme che si assentano per lavoro?
«Sì, non posso nasconderlo. Non immagina quanto mi abbia fatto male rinunciare a stare con i miei figli perché dovevo girare un film lontano. Amanda è stata quella che ha sofferto di più delle mie assenze. Ma poi abbiamo recuperato il tempo perduto e oggi è felicissima del nostro rapporto».
È stato difficile decidere di apparire nuda a 37 anni nel film La chiave?
«Sì, fu una scelta molto sofferta perché avevo una grande esperienza nel cinema e sapevo che il mio corpo nudo avrebbe oscurato qualunque altro aspetto del film. Eppure ho voluto farlo lo stesso: mi piaceva il tono ironico, quasi femminista della storia in cui gli uomini fanno una figuraccia».
Che senso ha la parola femminismo per lei oggi?
«È più che mai attuale. Amo e stimo le donne e credo di averle esaltate in tutti i miei personaggi, anche quando ne ho dimostrato debolezze e fragilità».
A che cosa sta lavorando?
«Interpreterò due opere prime, Falchi di Toni D’Angelo sulle scommesse clandestine sui cani, e Caffè nero bollente di Leonardo e Simone Godano in cui faccio la mamma di un transgender. Poi riprenderò la tournée teatrale della commedia Il bagno, accanto a mia figlia Amanda».
L’ultima volta che si è arrabbiata?
«Quando i vicini hanno deciso di tagliare gli alberi del giardino comune, dove i miei figli hanno giocato da piccoli, per costruire un parcheggio. Sono andata a piantarli di nuovo con le mie mani».
Lei è una persona solare. Che cosa non perdona?
«Alla fine perdono tutto, ma non sopporto chi spreca le fortune che gli sono capitate».
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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"
Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.
Che rapporto ha con il passare del tempo?
«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».
Davvero?
«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».
Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.
«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».
Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?
«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».
Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?
«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».
Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…
«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare».
Come mai?
«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».
Che cosa le disse al ritorno?
«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».
Ha fatto lo stesso con i suoi figli?
«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».
Che rapporto ha con la psichiatria?
«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».
Com’è andata?
«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».
E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?
«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il corpo».
Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?
«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».
Che cosa di lei non hanno mai capito finora?
«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».
Com’è la sua giornata ideale?
«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».
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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli
Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».
A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.
La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.
Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».
Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela
RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)
1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».
2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni?
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».
Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com
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«Quanto ti dicono: "se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?"»: l'editoriale di Silvia Grilli
In una scena di C'è ancora domani, la protagonista Delia, costretta dal marito brutale a un rapporto sessuale, toglie un granellino di polvere dal comodino, completamente estranea a quanto le sta accadendo. La dissociazione è un'autodifesa comune tra le vittime di stupro.
Una ragazza che intervistai mi raccontò che, durante la violenza, cercava di ricordare le parole delle sue canzoni preferite. Era come congelata nel panico: non urlò, non si mosse, terrorizzata di subire ulteriori aggressioni.
Jessica Mann, una delle testimoni al processo contro il produttore stupratore Harvey Weinstein, ha ricordato di essere rimasta immobile, mentre lui la violentava. Mann ha citato in tribunale uno studio scientifico sulle difese messe in atto da esseri umani e animali. Questi ultimi si fingono morti di fronte a un attacco, perché così i predatori sembrano perdere interesse. Ma, per ironia della sorte, è proprio l’immobilità della vittima a mettere in dubbio la credibilità delle donne nei dibattimenti per stupro. «Non si è mossa, quindi vuol dire che ci stava».
Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno voluto una legge per cambiare la vecchia norma, secondo la quale è reato solo se si viene costrette ad atti sessuali con modi violenti o minacce. Le due leader condividono l’idea che il consenso debba essere dichiarato all’inizio e durante il rapporto.
L’atto sessuale deve avvenire per libera scelta, non per ricatto, abuso di potere o quando la volontà è ridotta per effetto di alcol o sostanze. E non è consenso solo perché si era detto «sì» in passato o perché si è sposati. Il silenzio o l’inerzia non sono acquiescenza, ma una conseguenza della violenza stessa. E ci si può tirare indietro, anche dopo aver, inizialmente, condiviso l’approccio.
La legge, nata dal patto Meloni-Schlein, è stata approvata all’unanimità dalla Camera dei deputati. Ma al Senato, nella Giornata contro la violenza degli uomini sulle donne, è stata bloccata e rinviata. Il ministro Matteo Salvini sostiene che «Il consenso preliminare lascia spazio a vendette personali che intaserebbero i tribunali».
Cioè, la magistratura si ritroverebbe con orde di donne che mentono. Sinceramente, non ho mai visto in Italia tutta questa folla di femmine pronte ad accusare per incastrare qualcuno. Sinceramente, mi pare il contrario: le vittime non denunciano perché conoscono bene gli interrogatori e il calvario che dovrebbero sopportare se lo facessero. Sinceramente, mi sembra una bocciatura per paura di perdere i privilegi maschili.
In una scena del film After the Hunt - Dopo la caccia, Julia Roberts dice a una studentessa che accusa un professore di stupro: «Non denunciare, altrimenti diventerai radioattiva. Il nostro sistema è dominato dai maschi. Ne avrai bisogno quando chiederai lavoro, e non lo otterrai perché saranno terrorizzati che un giorno tu possa accusare anche loro».
La notte del weekend scorso, a Milano, una ragazza ha denunciato per violenza un giovane con il quale si era allontanata. «Mi ha violentata», ha detto. «Era consenziente», ha ribattuto lui. Un consenso che fino a un certo punto c’è stato. Poi non più.
Lo stupro non è stupro solo se ti costringono con la pistola puntata alla tempia. Lo è anche quando io non voglio o non voglio più. Vale anche nel caso di rapporti sessuali tra conviventi: solo «sì» è «sì».
Anni fa, un senatore californiano si oppose a una legge contro lo stupro nel matrimonio, dicendo: «Se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?». Ecco, è proprio questo il concetto: né il corpo di tua moglie né quello della ragazza che si allontana con te, poi cambia idea, ti appartengono. Il loro corpo è loro, non tuo.
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GRAZIA presenta il numero straordinario "L'arte è donna" con direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo
Grazia, il magazine di Reworld Media diretto da Silvia Grilli, presenta il numero straordinario L'arte è donna. Il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste, collezioniste sono il filo conduttore di questa edizione speciale che ha come direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, fondatrice e presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, collezionista e mecenate riconosciuta a livello internazionale.
“Nella storia dell’arte le donne sono state cancellate o relegate al ruolo di mute muse ispiratrici, tagliate fuori dalle scuole, dalle botteghe degli artisti”, dichiara Silvia Grilli, direttrice di Grazia. “Con questo numero abbiamo voluto invece raccontare il talento femminile che c’è e c’è sempre stato, la creatività, pervicacia e abnegazione delle artiste donne, il loro sguardo diverso. Quando ho chiesto a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo di curare questo numero di Grazia, ho trovato un’interlocutrice appassionata, capace di raccontare nel modo migliore quel genio che non è appannaggio esclusivo degli uomini”.
“Questo numero speciale contiene storie, opere e luoghi che raccontano la mia vita con l’arte contemporanea, sul filo di una grande passione, un sogno, una visione che seguo e inseguo da oltre trent’anni”, spiega la direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. “Fra queste pagine, quel filo rosso è diventato un progetto a più voci che ha unito le forze per parlare dei cambiamenti del mondo delle donne: artiste, collezioniste, direttrici di musei, architette, scienziate. Nessun separatismo, le storie che abbiamo scelto, insieme con la direttrice Silvia Grilli e lo staff di Grazia, superano la tradizionale categoria di ‘femminile’, nell’editoria così come nell’arte, per portarci in un territorio di ricerca, uno spazio plurale, aperto sul presente, sensibile al diritto all’autodeterminazione, al di là di nascita e appartenenze”.
La copertina del numero è un’opera della pittrice e fotografa polacca Paulina Olowska intitolata Weeds (2017 - Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) che attraverso un nudo femminile - genere che nella storia dell’arte è stato per lo più appannaggio dello sguardo maschile - reclama la propria libertà di espressione.
Per raccontare il suo percorso, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo si è affidata alle domande attente del giornalista Dario Maltese e insieme hanno parlato di arte, emozioni e futuro. Si prosegue poi con Hans-Ulrich Obrist, curatore d’arte e direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, che intervista per Grazia l’architetta messicana Frida Escobedo, che realizza progetti nati dal suo bisogno di comunicare.
E il mondo scoprì le artiste è invece un’inchiesta approfondita sui grandi talenti dimenticati dalla storia. Pittrici e scultrici hanno infatti dovuto lottare e affrontare una moltitudine di ostacoli che non hanno diminuito il loro valore, ma spesso ne hanno cancellato traccia. Storiche dell’arte e curatrici stanno così adottando nuove strategie per restituire loro visibilità, mettendo in atto una vera e propria rivoluzione creativa.
Anche la moda è in linea con il tema portante del giornale: i bijoux americani degli Anni 30 collezionati da Patrizia Sandretto re Rebaudengo saranno abbinati a look liberi e anticonformisti e avranno come sfondo le opere della pittrice Pia Krajewski.
Sulle pagine della rivista ci sono poi due artisti che vanno oltre le definizioni di genere, lasciando spazio alle loro visioni: si parla di arte e natura con Jota Mombaça e di linguaggi e inclusione con Diana Anselmo.
Anche il rapporto tra arte e cinema è strettissimo: il grande schermo ha raccontato le vite e il tormento dei geni della pittura e Paola Malanga, direttrice artistica della Festa del Cinema di Roma, ha scelto per Grazia le pellicole da non perdere.
Nella sezione dedicata alla cultura, con la collaborazione della Fondazione Sandretto re Rebaudengo, vengono spiegati i percorsi artistici formativi e segnalate le 10 mostre dell’inverno da non perdere che guidano i lettori e le lettrici in un viaggio di linguaggi diversi.
Infine uno spazio è dedicato anche alle eccellenze mediche al servizio della salute delle donne della Fondazione IEO-MONZINO ETS, di cui Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è presidente. A parlare delle conquiste nelle terapie e nella prevenzione decisive per le pazienti sono la specialista di senologia Viviana Galimberti e la cardiologa Daniela Trabattoni.
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